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americani, Anni 1970, Antologia, Ellery Queen, Gian Franco Orsi, Giorgio Monicelli, Il Giallo Mondadori Presenta, Nora Finzi, Oliviero Berni
Vecchio numero della collana “Il Giallo Mondadori Presenta”, curata da Gian Franco Orsi: questo terzo numero è uscito in supplemento al Giallo n. 1549.
L’illustrazione di copertina è firmata da Oliviero Berni.
La scheda di Uruk:
3. Ellery Queen a Hollywood, a cura di Gian Franco Orsi [ottobre 1978]
– Hollywood in subbuglio (The Devil to Pay, 1938) – Traduzione di Giorgio Monicelli
– Quattro di cuori (The Four of Hearts, 1938) – Traduzione di Ada Salvatore
– L’origine del male (The Origin of Evil, 1951) – Traduzione di Nora Finzi
La trama:
Ellery Queen è furibondo. Gli hanno detto di partire subito da New York per Hollywood. E lui è partito. Non ha fatto in tempo ad arrivare alla mecca del cinema, che gli hanno detto di presentarsi subito al lavoro. E lui si è precipitato agli studi, ma il grande produttore si è rivelato troppo occupato per riceverlo. Sono passate alcune settimane, ed Ellery sta ancora aspettando di mettersi alla macchina per scrivere. Hollywood non gli è amica? Ma se il mondo del cinema sembra voltargli le spalle, quello del delitto ha bisogno di lui. A Hollywood ci sono tre casi che aspettano solo di essere risolti dal principe degli investigatori. Caso numero uno: il misterioso assassinio di un finanziere (Hollywood in subbuglio) Caso numero due: un clamoroso crimine nella dorata casta dei divi (Quattro di cuori) Caso numero tre: la strana morte di un ricco gioielliere (L’origine del male).
L’incipit dell’Introduzione:
Leggendo questi tre romanzi che hanno un comune denominatore nella magica parola: Hollywood, e un protagonista del calibro di Ellery Queen, che sbarca nella mecca del cinema per lavorare negli studi cinematografici di una grande casa di produzione e si trova invece coinvolto in vari omicidi, ci è venuto voglia di saperne di più dall’autore stesso che a Hollywood ha lavorato e ha vissuto – parzialmente – le stesse esperienze del suo personaggio.
Intanto, per chi ancora non lo sapesse, vale la pena di chiarire subito un dato fondamentale: Ellery Queen nasconde il nome di due autori: Manfred B. Lee e Frederic Dannay. I due prima che parenti di… inchiostro lo erano di sangue. Erano infatti cugini. Nati entrambi nel 1905, debuttarono nella letteratura poliziesca nel 1929 col romanzo «La poltrona n. 30», creando uno dei dieci personaggi più popolari di questo genere narrativo: Ellery Queen.
L’incipit di “Hollywood in subbuglio”:
Hollywood, come la Terra di Oz, possiede un caratteristico, armonioso sapore: è il luogo dove alberi natalizi di latta spuntano intorno ai lampioni, in dicembre, sotto un sole di trenta gradi, dove i ristoranti assumono la forma di fari marini e di cappelli, dove le signore il sabato sera passeggiano per i viali alberati in calzoni e giacche di martora, portando al guinzaglio piccoli leopardi, e i giornali del mattino costano cinque cents e quelli della sera due, e la gente fa la coda ore e ore per assistere agli spettacoli più insignificanti.
Pertanto, un avvenimento «qualunque» a Hollywood è di gran lunga meno « qualunque » che se accadesse a Cincinnati o a Jersey City e uno importante molto, ma molto più importante.
Così quando scoppiò lo scandalo della truffaldina società Ohippi, anche quelli che non erano azionisti divorarono le notizie provenienti da Los Angeles e Ohippi divenne una parola celebre.
Parlo senza la minima ironia. Crollando, l’Ohippi restò paradossalmente in piedi come una maggiore calamità. E mentre la causa non veniva dibattuta nei tribunali, grazie alla preveggenza del piccolo avvocato Anatole Ruhig, una vera e propria battaglia decisiva infuriava sulla stampa e per le strade. Erano autentiche marce militari quelle che risuonavano per la città, con l’allampanato figlio di Solly Spaeth che sparava a zero con le sue vignette satiriche dalle pagine del Los Angeles Independent e infelici azionisti che gridavano e facevano gesti minacciosi davanti ai cancelli di ferro di Sans Souci, dietro cui Solly sedeva imperturbabile a contare i suoi milioni.
L’incipit di “Quattro di cuori”:
È un fatto notorio che chiunque rimane a Hollywood più di sei settimane, viene colpito repentinamente da pazzia incurabile.
Il signor Ellery Queen cercò a tastoni la bottiglia di whisky nel baule aperto.
— A Hollywood, città degli sfruttatori! Beviamoci sopra! — Trangugiò il whisky rimasto e, dopo aver scagliato la bottiglia vuota in un angolo, continuò a fare il suo bagaglio. — California, me ne vado: non onorato, non rimpianto, non festeggiato. E che me ne importa?
Alan Clark sorrise con quel suo sorriso alla «Monna Lisa» che caratterizza i membri della confraternita degli agenti cinematografici di Hollywood, siano essi grassi o magri, piccoli o grandi, piagnucolosi o spavaldi. È il sorriso grave, ponderato, cinico della pura saggezza.
— Fate tutti così, da principio. Chi riesce ad addentare qualcosa non molla. Chi non riesce… diventa verde e se ne torna imprecando a casa sua.
— Se credi di farmi arrabbiare — ringhiò Ellery, dando un calcio al sacco dei bastoni da golf — puoi anche smetterla, Alan. Ci ho fatto il callo.
— Ma che diavolo ti aspettavi: un lauto stipendio fin dalla prima settimana e un pranzo d’onore al Coconut Grove?
— Volevo lavorare — ribatté Ellery irragionevolmente.
— Bah! — esclamò l’agente. — Questo non è lavoro, è arte. Perché non aspetti di aver la possibilità di imparare i trucchi?
— Seppellendomi a girare i pollici in quel mausoleo di ufficio che mi hanno dato?
— Sicuro — cercò di calmarlo Clark. — Perché no? È la caratteristica della Magna Studios, no? Se la società ha deciso di investire nella tua persona sei settimane di salario, non credi che sapesse ciò che faceva?
L’incipit di “L’origine del male”:
Ellery se ne stava sdraiato sulla poltrona di pelle, e aveva appoggiato sul tavolo, accanto alla macchina per scrivere, ì piedi calzati di sandali messicani: stringeva in mano un grosso bicchiere gelato. Davanti a lui la finestra si apriva sul magnifico panorama. Il corpo della vittima giaceva ai suoi piedi, e lui lo esaminava tra un sorso e l’altro, senza venire a capo di nulla; comunque Ellery non se la prendeva troppo; l’indagine era appena incominciata e appariva particolarmente difficile, ma il rum gli dava coraggio. Ne bevve un altro sorso: era un caso non comune. La vittima si contorceva ancora e dal punto in cui lui sedeva poteva scorgere indubbi segni di vita. A New York lo avevano messo in guardia contro una simile illusione, avvertendolo che si trattava degli estremi riflessi vitali. «Voi non ci crederete — gli avevano detto — ma il processo di decomposizione è già iniziato e non ci vuole una particolare competenza per accorgersene.» Ma Ellery era rimasto scettico. Aveva conosciuto la vittima nei suoi anni giovanili: era una ragazza procace e tutti gli uomini sognavano di lei a occhi aperti, ma lei si prendeva gioco delle maledizioni degli uni come delle bramosie che destava negli altri. Era arduo credere che tanta vitalità si fosse spenta.
Ed Ellery non ne era perfettamente convinto nemmeno ora, pur trovandosi sulla scena del delitto, o — per essere più precisi — al di sopra di tale scena, perché la casetta che aveva affittato dominava la città dall’alto, appollaiata sul dosso collinoso, come un nido d’uccello sui rami più alti di un albero. Lei giaceva laggiù, sotto un velo sottile di nebbia, e tutti la dicevano morta.
Povera Hollywood!
Il risultato dell’autopsia era stato il seguente: uccisa dalla televisione.
L.
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