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Anni 2010, Antologia, Cornell Woolrich, Ellery Queen, Gli Speciali del Giallo Mondadori, Mauro Boncompagni, Mondadori
Il consueto Mauro Boncompagni, colonna portante de Il Giallo Mondadori, presenta questo aprile la sua nuova opera di raccolta: il numero 78 de “Gli Speciali del Giallo Mondadori”, dal titolo L’alta cucina del delitto.
La scheda di Uruk:
78. L’alta cucina del delitto, a cura di Mauro Boncompagni [aprile 2016] Euro 6,90
– Introduzione, di Mauro Boncompagni
– La ricetta del diavolo (The Devil’s Cook, 1966) di Ellery Queen – Traduzione di Lydia Capriati Cagnoni
• TRAMA: Terry Miles, bella e disinibita, è scomparsa un venerdì pomeriggio.Rapita? Uccisa? Entrambe le cose? Le piste possibili non si contano, a partire da un marito per nulla preoccupato. Ma per il capitano della polizia Bartholdi, un posto speciale tra gli indizi spetta a uno stufato con troppa cipolla.
– Ne uccide più la gola… (Table d’Hôte, 1977) di Douglas Clark – Traduzione di Diana Fonticoli
• TRAMA: Daphne Bymeres è morta dopo una cena fra buongustai. Forse per avvelenamento, anche se dall’autopsia non risultano sostanze letali. Cause naturali, allora? Difficile crederlo per il sovrintendente Masters e l’ispettore Green, soprattutto quando tra gli invitati c’è chi avrebbe desiderato che accadesse.
– Morte in ascensore (After-Dinner Story, da “Black Mask”, gennaio 1938; “EQMM”, settembre 1943) di Cornell Woolrich – Traduzione di Hilia Brinis
• TRAMA: In un palazzo di uffici un ascensore viene manovrato a velocità folle fino a schiantarsi al suolo. Agli occupanti intrappolati al buio non resta che attendere i soccorsi, fronteggiando il panico e il dolore per le ferite riportate. E un assassino che ha scelto quest’occasione per colpire.
L’incipit dell’Introduzione:
Sarebbe troppo facile dire che, nella cucina del giallo, non occorra essere un grande chef per preparare i piatti migliori. Sono altri gli ingredienti che qui si rendono necessari per dare al prodotto finale il suo sapore unico e inconfondibile: l’inventività del plot, una buona delineazione dei personaggi, una scrittura sapida e incisiva, naturalmente una sorpresa finale degna del nome. Tuttavia, nella sua storia, il giallo si è cimentato spesso anche con la gastronomia in senso stretto, dando vita, nei suoi esiti migliori, a piatti da alta cucina. L’alta cucina del delitto, appunto. E tra l’attività del cuoco e quella del giallista c’è una somiglianza di fondo, a pensarci bene: confezionare un buon piatto può essere magari meno complesso, ma è altrettanto soddisfacente che confezionare un buon poliziesco. Specie se si usa la buona e vecchia, diremmo insuperabile, ricetta che Aristotele ci ha preservato nella sua Poetica: scegliere un intreccio sufficientemente intrigante, lasciar muovere i personaggi in modo che suscitino emozioni convincenti e far culminare il tutto in una catarsi purificatrice che risolva l’azione e chiuda la vicenda senza lasciare buchi.
L’incipit de “La ricetta del diavolo”:
Handclasp è una parola che, anche se non è registrata nei vocabolari, significa “cordiale stretta di mano”. Potete però trovarla in un qualunque dizionario geografico, poiché Handclasp è una città di 125.407 anime, nel cuore degli Stati Uniti.
È logico dedurre che i fondatori di Handclasp battezzarono così la loro colonia con l’intenzione di farne un’oasi dove gli abitanti sarebbero dovuti vivere in buona armonia tra loro e, magari, persino con gli indiani. Ahimè, che illusione! Anche se non ci sono testimonianze di scontri avvenuti con gli indiani, rimane però il ricordo di innumerevoli divergenze fra cittadini: si tratta di contrasti a volte banali, a volte gravi, ma per lo più, come avviene ovunque, di media importanza: un susseguirsi di lotte politiche, antagonismi di classe, vendette personali e controversie matrimoniali. Ma, in mezzo a questa cronaca sciatta di infrazioni comuni, di cui qualcuna giunta fino in tribunale, esplode ogni tanto un avvenimento sensazionale.
Un omicidio, per esempio.
L’incipit di “Ne uccide più la gola…”:
Il ristorante era un posto riservato, nel senso che era difficile trovarlo, se non si ricevevano precise istruzioni sul modo di raggiungerlo. Sulla strada principale non c’era nessun cartello a indicare che il Bramblebush era appena svoltato l’angolo, ben nascosto dietro l’ala del palazzo che ospitava la bottega dell’antiquario. Quanto alla strada secondaria, si staccava da quella principale a un’angolazione troppo infelice per incoraggiare gli automobilisti di passaggio a imboccarla. Per quelli provenienti da Londra, la brusca curva a sinistra non era visibile se non all’ultimo momento, mentre per gli automobilisti diretti verso la città, la svolta a destra costituiva un pericolo, essendo necessario tagliare il traffico per compiere la manovra.
Un cartello affisso alla cancellata avvertiva dell’esistenza di un posteggio sulla parte posteriore. La parola “Ristorante” veniva dopo, in caratteri più piccoli.
L’incipit di “Morte in ascensore”:
MacKenzie entrò nell’ascensore al tredicesimo piano. Era un rappresentante di filtri ad acqua, ed era passato dall’ufficio centrale per fare il rendiconto delle vendite prima di tornarsene a casa dopo una giornata di lavoro. Come più tardi raccontò alla moglie, in tono semischerzoso, forse per questo gli era capitata quell’avventura: perché aveva preso l’ascensore al tredicesimo piano. In molti stabili il tredicesimo piano veniva omesso, come avviene per le stanze d’albergo.
L.
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