Numero della storica collana “KKK” diretta da Leonia Celli, che firma anche questo romanzo “sotto copertura”.
L’illustrazione di copertina è firmata da C. Renè.
La scheda di Uruk:
14 (Anno II). La Pietra Nera (Piedra nigra) di Colley Laine [22 febbraio 1960] Versione italiana di Leonia Celli
La trama:
La Pietra Nera è un singolare romanzo in cui sono abilmente mescolati storia, leggenda e fantasia! Una storia di passione e d’amore che si perpetua nei secoli e che rende attuali gli allucinanti riti religiosi degli antichi popoli Maya ed Aztechi, facendo rivivere in tempi moderni i loro terrificanti sacrifici umani e l’antropofagia sacra! Qual è l’ambiguo, misterioso legame che lega Tezla, il Sacerdote del tempo della Conquista, a Myron Lleras, uno studente americano che studia a Parigi? Grace McDone, una splendida ragazza inglese, avverte il pericolo, ma ne è affascinata e non è capace di individuarlo! Fra tutti il tenente Levin della Polizia francese, non avrà mal la spiegazione logica di una serie di delitti che presentano tutti un cadavere scannato, al quale è stato strappato il cuore dal torace aperto!
L’incipit della Prefazione:
In questo racconto, ovviamente, molto è dovuto alla fantasia dell’autore. Tuttavia avvertiamo il lettore che i riferimenti di carattere storico sono rigorosamente autentici. Quando il protagonista del racconto, Myron Lleras, asserisce che gli Aztechi usavano sacrificare ai loro Dei in un dato modo — descritto nella narrazione — non fa una affermazione arbitraria per comodità dell’autore, bensì una constatazione convalidata da storici scrupolosi.
In questo libro sono stati mescolati con dosi accuratamente calcolate, l’invenzione fantastica, gli spunti leggendari e il riferimento storico di un popolo i cui usi sono ancora ignorati da molti, ma le cui gesta, leggendarie o documentate che siano, potrebbero offrire argomento per una serie di volumi completamente diversi lo uno dall’altro e tutti ugualmente interessanti.
L’incipit:
Grace entrò, girò l’interruttore e buttò la borsetta sulla poltroncina dell’ingresso, poi si sfilò il leggero soprabito e, seguitando a camminare, entrando nel salottino, lo lasciò cadere semplicemente per terra, sul tappeto sottile di lana. Sempre camminando si sfilò una delle scarpette scollate, lasciandola lì dove si trovava, poi l’altra, proseguendo con le sole calze sul breve tappeto e fermandosi infine davanti al tavolino tondo dove accese il lume velato da una larga ventola di stoffa rosa.
Era felice!
Era ormai a Parigi da una settimana ma non riusciva ancora a crederci.
Se nella casa paterna, a Londra, avesse osato seminare così i propri indumenti avrebbe scandalizzato tutti, dalla governante alla zia e al tutore! Ma per fortuna qui non c’erano né governanti, né zie, né tanto meno tutori. Ormai era maggiorenne ed era riuscita ad affrancarci dal parentato, esiguo sì, ma sempre presente fino a una settimana prima.
Quello sbarazzarsi così, degli indumenti inutili, quel camminare per la minuscola casa senza scarpe.
Ecco, era un suo modo di sentirsi libera, viva, sola, soprattutto sola e felice!
Era riuscita a fissare un appuntamento col professor Levelle, ed era andata da lui ancora pavida e spaurita, con la cartella dei suoi disegni.
Aveva stabilito con se stessa — e col parentado inglese, restìo a lasciarla andare, sola, nientemeno, a Parigi! — che sarebbe rimasta in Francia soltanto se avesse potuto aver conferma che valeva la pena di continuare a studiare pittura… Erano tutti d’accordo, a Londra, nel dire che aveva un grande talento… ma era facile dire così di una dilettante. Ora che era libera, però, ora che doveva scegliersi una strada per non sciupare oziosamente la rendita lasciatale dal padre e amministrata con profitto dal tutore, ora che doveva decidersi a pensare all’avvenire e soprattutto ora che s’era convinta che non aveva nessuna intenzione di sposare nessuno dei perdigiorno che avevano posto la candidatura alla sua mano., bene ora voleva smetterla col dilettantismo.
Parigi, dunque! Se un autentico Maestro — lo stesso Levelle, magari — l’avesse incoraggiata a seguitare, si sarebbe stabilita nella capitale francese per tutto il tempo necessario a formarsi uno stile, a completare la sua preparazione., ma se le avessero ancora detto « Lei ha del talento per essere una dilettante…» allora avrebbe rinunciato senz’altro a studiare pittura e avrebbe deciso diversamente della propria vita. Benché, in proposito, dovesse confessare di non avere affatto le idee chiare: non era mai riuscita a pensare davvero di abbandonare disegno e colori!
— Venga da me — le aveva detto brevemente Levelle dopo avere esaminato i suoi disegni e i due quadretti a olio che gli aveva portato. — Non ho molto tempo, ma due lezioni alla settimana cercherò di dargliele… vediamo… — aveva fatto laboriosi calcoli con l’aiuto di un’agendina molto usata e tutta attorcigliata, e aveva concluso — mercoledì pomeriggio, dalle tre alle cinque e sabato mattina dalle dieci a mezzogiorno.
Adesso si sentiva felice!
E Parigi era sua, le pareva che le appartenesse, un poco, da stasera in poi!
Grace accese una sigaretta e andò nell’altra stanza una camera da letto più piccola del salottino — a infilare un paio di pantofole. Perché a fine settembre, a Parigi, fa già freddo, di sera, e nel cucinino non cerano tappeti per terra!
Preparo la teiera canticchiando e si ripromise di abituarsi al caffè alla maniera francese. Voleva adottare tutto della città che aveva eletto per propria residenza; voleva vivere come una francese, se le fosse riuscito!
Rise sommessamente, fra sé, nel compiere un mezzo giro su se stessa per prendere il pacchetto del tè. Non s’era ancora abituata alla mancanza di spazio di quella cucina e nemmeno del bagno, altrettanto esiguo. Le veniva da ridere ripensando ai locali di servizio — vere piazze darmi al confronto di questi — della sua casa londinese dove era la zia era rimasta a imperare da sola!
Preparo il vassoio con una tovaglietta candida — la portinaia era brava a lavare, pensò — e vi posò la tazza, il piattino col burro, il vasetto del miele, i biscotti e i fiocchi di mais tostati. Rifletté che avrebbe dovuto abituarsi a cenare alla maniera francese e che, comunque, avrebbe fatto bene a far bollire un paio d’uova! Ma non aveva fame, era troppo eccitata e contenta.
Tornò nel salottino col vassoio carico e si sedette su una poltroncina bassa col vassoio in grembo, cominciando a mangiare allegramente.
— Un gatto! — disse ad alta voce — Un gatto oppure un canarino! Tutti e due no! Ma uno dei due… mi terrà compagnia e mi saluterà quando torno, la sera!
Rifletté che il canarino era più adatto. Non solo era più allegro, ma sul terrazzino aveva anche un cantuccio ideale.
Finito il breve pasto riportò il vassoio in cucina e andò sul terrazzo, ad assicurarsi d’aver pensato bene: ecco, lì nell’angolo la gabbia sarebbe stata riparata dal vento; in quel punto il terrazzo era coperto dal cornicione del palazzo, e anche se avesse piovuto, in sua assenza, il suo piccolo amico non si sarebbe bagnato…
Dimenticò i progetti per i giorni, futuri e s’incantò a contemplare Parigi!
Aveva voluto lei un appartamento come quello, su in alto, che dominasse la città e da cui si vedessero luci e tetti a non finire. Che importava se aveva solo due stanze a disposizione, di cui una piccola come un bugigattolo? Che importava se la cucina non era larga nemmeno due metri quadrati? Che peso poteva avere il fatto di doversi fare sette piani di scale? Era giovane e allenata a molti sports!
L.
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