Prima di darlo via, schedo questo vecchio numero de “Il Giallo Mondadori“, all’epoca della direzione di Oreste Del Buono.
L’illustrazione di copertina è, come sempre, firmata da Carlo Jacono.
La scheda di Uruk:
1660. Tensione sotto zero [Matt Erridge] (Chill Factor, 1978) di Aaron Marc Stein [23 novembre 1980] Traduzione di Silvia Pallottini
– Inoltre contiene il racconto:
Una golf grigio argento (Count Your Blessings, 18 agosto 1980) di Simon Brett
La trama:
Aaron Marc Stein è tanto abile e divertito nel proprio mestiere da tentare un’ennesima volta un tema canonico del giallo tradizionale: gruppo malassortito con morto, bloccato sotto lo stesso tetto da neve. La novità è che il tetto non appartiene a una villa, come tradizione canonica prescriverebbe, ma alla fattoria in cui il rustico e cordiale Sobieski accoglie i coniugi Kelly e Matt Erridge, il protagonista, impediti nel proseguimento del viaggio da un’autentica tormenta. Agli eletti si aggiungono la giovane e biliosa signora Sobieski con pargoletto lattante, un vicino stolido a nome Dawson e, nel granaio, il cadavere di un tale che dapprima si cerca di ritenere morto per un incidente, ma risulta presto regolarmente assassinato. Aaron Marc Stein dispiega tutto il suo garbo, la sua vitalità, il suo senso della misura e fa ancora una volta centro.
L’incipit:
Io vado matto per la neve. Senza neve, addio sci. Ed io, ingegner Matthew Erridge, sono stato costretto dai vari impegni professionali a passare troppi inverni relegato in uno di quei posti torridi dove la neve se la sognano. Uno di quei posti dove pare sempre estate e il Natale, privo di tutte quelle cose tradizionali che ne creano la particolare atmosfera, deve essere festeggiato coi fuochi d’artificio. Mancando 1’ abete vero, ci si può anche accontentare di uno di plastica; ma un surrogato soddisfacente della neve non è stato ancora inventato da nessuno: anche la sabbia più bianca non regge al confronto e non serve allo scopo.
Vorrei poter dire che, se le previsioni del tempo anziché limitarsi a promettere vagamente una semplice spruzzatina di neve avessero preannunciato che ne sarebbe caduta con un’abbondanza mai vista, mi sarei rassegnato a ravvivare il fuoco del camino e a godermi dalla finestra lo spettacolo del giardino di mia madre, a New Jersey, che andava ammantandosi di bianco. Ma non è nel mio carattere.
In ogni caso io sarei partito in direzione nord verso i primi pendii raggiungibili. C’è da dire che, basandosi su quelle previsioni del tempo, e senza curarsi degli avvertimenti che più neve cade e più rigido si fa il freddo, anche i più prudenti non avevano fatto altro che infilarsi la solita calzamaglia e un maglione un po’ più pesante, ed erano partiti in quarta verso mete eccitanti.
Io invece avevo messo i pneumatici da neve e mi ero assicurato che l’eccellente sistema di riscaldamento della mia Porsche funzionasse alla perfezione. Avevo fatto un buon rifornimento di Virginia Gentleman, pronto a rimettere in circolazione il calore nelle vene e, per giunta, avevo preso con me un bel thermos pieno di caffè bollente. Mi ero messo una bella tuta di lana molto calda e uno di quei maglioni sferruzzati in Norvegia dove hanno bene in mente il freddo polare artico. Sul sedile accanto avevo il mio bel giubbone di montone rovesciato.
Secondo me, il mio equipaggiamento era fin troppo abbondante ; ma si dà il caso che la mia partenza avvenisse sotto la sovrintendenza di mia madre. Se non fosse del sesso opposto, mamma sarebbe di quelli che sorreggono i calzoni con cintura e bretelle contemporaneamente.
Lasciando New Jersey,, non è necessario andare molto lontano per poter sciare un po’. Una corsa a ovest e si raggiungono i Poconos, una puntatina a nord ed ecco i Catskills; ma Erridge mirava più in alto e, disdegnando quei modesti campetti, puntò diritto verso le vere montagne del Vermont.
Filavo a tutta velocità, e dopo un’ora buona mi imbattei nel primo agognato fiocco di neve. In breve divenne sempre più fitta, e in capo a due ore ero tutto estasiato nell’ammirare rami e ramoscelli ricoperti di un candore immacolato. Il suolo tutt’intorno era diventato come una coltre spessa e morbida e di un bianco che, come il bucato alla tivù, più bianco non si può.
C’era tanta neve ora che, con tutta quella che veniva ancora giù e quella già caduta, non si distingueva più il cielo e la terra. I fiocchi avevano coperto tutto il mio parabrezza e frenavano i tergicristalli che si muovevano sempre più stentati. Non che facesse molta differenza, perché anche nei brevi sprazzi di visibilità non mi appariva altro che ancora neve, come una cortina turbinante e impenetrabile. Era come se l’aria stessa si fosse solidificata.
L.
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