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Prima di darlo via schedo questo numero de “Il Giallo Mondadori“, nell’epoca della direzione di Gian Franco Orsi.

L’illustrazione di copertina è firmata, come sempre, da Carlo Jacono.

La scheda di Uruk:

1286. Il prezzo dell’innocenza (Cover Her with Roses, 1969) di Rex Anderson [23 settembre 1973] Traduzione di Silvia Stefani Aleotti
Inoltre contiene il racconto:
I bambini di Alice (Sheep to the Slaughter, da “EQMM“, agosto 1973) di Donald Olson

La trama:

«Tutto va per il meglio nel migliore dei mondi» è una frase fatta, alquanto banale. Un motto per edonisti. Ma lo si potrebbe applicare a Holden Jones. I suoi studi all’università procedono bene, la sua famiglia è ricca, la sua fidanzata è un incanto, il suo avvenire è dei più rosei. Sì, tutto va per il meglio, fino al giorno in cui viene assassinata Melissa Gentry, una sua compagna di studi. Di punto in bianco, Holden si trova con un biglietto di andata per la cella dei condannati a morte. Marvin Witt, capitano della polizia, aspira al «colpo grosso» che dovrebbe avvalorare la sua candidatura alla carica di Procuratore distrettuale, e vede in Holden l’«indiziato ideale», il trampolino per le proprie ambizioni. Non è un poliziotto onesto, ma è «onestamente» convinto che Holden sia l’assassino. E non gli mancano gli elementi per ottenere il rinvio a giudizio. Ma Holden, con il coraggio della disperazione, è deciso a sopravvivere. Il gioco a guardie e ladri fra il giovane inesperto e il poliziotto «speronato» sarà una lotta impari, patetica e ci terrà col fiato sospeso fino al colpo di scena imprevedibile.

L’incipit:

Il carillon della torre dell’Unione mi svegliò verso l’una. E fu uno spiacevole risveglio. Stavo molto male; ero inzuppato di sudore a causa del sole pomeridiano che batteva sul letto; poi, nella mia mente, c’era il ricordo vago, sfumato, di qualcosa di terribile, simile a un incubo.
Per un minuto rimasi immobile, a fare l’inventario di tutti i miei guai: la fastidiosa luce del sole, il saporaccio in bocca, lo stomaco sconvolto, il mal di testa, l’inno nazionale eseguito dalle campane, ma, peggio di tutto, l’impossibilità di ricordare quella specie di incubo.
Cercai di ricostruirne almeno una parte, pensando che, cosi, sarebbe venuto fuori il resto, ma non riuscii a cavarne niente, tranne la sensazione opprimente che qualcosa di orribile era accaduto.
Quando finalmente le campane smisero di suonare l’inno nazionale, per attaccare l’“Ouverture 1812”, riuscii a tirarmi in piedi e a trascinarmi fino in bagno. Mi strofinai i denti con lo spazzolino per un po’; nel frattempo, quel maledetto scampanio finì e con la bocca rinfrescata e il silenzio, mi sembrò che la vita ricominciasse a scorrere.
Poi, presi una compressa d’aspirina, mi lavai la faccia con acqua fresca e andai a cercare una sigaretta.
Il mio appartamento si trova a circa un isolato di distanza dal campus. In origine, quando la zona faceva parte di una proprietà, l’edificio era stato un garage, con gli appartamenti della servitù al piano superiore. La casa padronale era stata demolita molti anni prima e il terreno diviso in lotti, ma il garage non era stato toccato e faceva parte di un piccolo lotto rimasto al proprietario che aveva fatto riparare e riadattare la costruzione trasformandola in un’abitazione a un piano per la nuora e il figlio, poiché quest’ultimo frequentava l’università.
Al pianoterra c’erano un ampio soggiorno, la cucina e un bagno. Una bella scala a chiocciola di ferro battuto, al centro del soggiorno, conduceva alla piccola anticamera del piano superiore. Su quell’anticamera davano un altro bagno, una camera da letto e uno studio. Era una casetta molto simpatica. Certo di gran lunga preferibile a tutti i pensionati in cui avevo abitato.

L.

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