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Vecchio numero della collana quattordicinale “I Capolavori dei Gialli Mondadori” diretta da Alberto Tedeschi.

L’illustrazione di copertina è firmata da Carlo Jacono.

La scheda di Uruk:

289. Mio figlio, l’assassino (The Wife of Ronald Sheldon, o My Son, the Murderer, 1954) di Patrick Quentin
– Inoltre contiene il racconto:
La bella e il mostro (The Pigeon-Woman, da “EQMM”, luglio 1952), di Patrick Quentin (ma in originale è Q. Patrick)

La trama:

Tutto, proprio tutto è contro Bill, ma il padre, non lo crede colpevole. Gli amici stanno per arrendersi a quella che pare la palpabile verità. La polizia sta per trarre le conclusioni di un fatto che sembra di una certezza lampante. Manca un ultimo quadratino per ricostruire tutta la scena. Come si inserirà questo pezzetto mancante del puzzle? Sarà condannato a morte Bill? Sarà provata la sua colpevolezza di omicidio nella persona di Ronnie?

L’incipit:

Era un sabato mattina, e io indugiavo ancora a letto. Leora, la donna di servizio, mi aveva portato la colazione in camera; da quando ero rimasto solo, mi colmava di attenzioni. Veramente, a me non piace mangiare a letto, ma non avevo voluto offenderla con un rifiuto. Avevo letto la posta e ora stavo esaminando il manoscritto di un romanzo che mi ero portato a casa dall’ufficio. Sentivo Leora che faceva pulizia nella stanza di soggiorno, camminando pesantemente seppure in punta di piedi. Per lei, un editore era una creatura sensibile, immersa costantemente nel “lavoro”, anche se era a letto, e la cui ispirazione poteva svanire da un momento all’altro, per colpa di un piumino per la polvere troppo rumoroso. “Quando si lavora col cervello, signor Duluth, non bisogna essere distratti da altre cose” soleva dirmi.
Il telefono suonò per la prima volta nella mattinata. Alzai il ricevitore. Era Bill. Mio malgrado, una gioia senza limiti mi assali, come se tutti i dissensi che ci avevano allontanati l’uno dall’altro non fossero mai esistiti.
– Buon giorno, papà.
– Buon giorno Bill.
Ci fu una pausa. Percepivo il disagio di mio figlio come se si trovasse nella stanza, accanto a me. Avrei voluto venirgli in aiuto ma improvvisamente mi sentii a disagio anch’io.
– Be’, papà come stai?
– Bene e tu?
– Bene, grazie.
Da quattro mesi non sentivo la sua voce. Avevo immaginato molte volte questo momento, lo avevo desiderato, avevo anche progettato ottimisticamente una riconciliazione. Ora, tutto quello che riuscii a dire, fu:
– Dove sei?
– Qui, a casa mia. Hai molto da fare, papà?
– Abbastanza. Ronnie è ancora in Inghilterra ma lo aspetto di ritorno presto.
Di solito, quando nominavo il mio socio, Bill non mancava di fare qualche commento sarcastico sul mio “signore e padrone”, ma stavolta non seppe dire che: – Ah, sì?
Un’altra pausa, poi: – Sei occupato, in questo momento, papà?
– No.
– Ho qualcosa da dirti. È piuttosto importante.
Provai l’antico senso di apprensione.
– Qualcosa che non va?
– Oh no, no, niente del genere.
Nella sua voce sentii la consueta impazienza. “Ecco, prende come al solito tutto sul tragico” pensava sicuramente. Ma cercò di controllarsi. Per una ragione a me ignota, si comportava con eccezionale cortesia.
– Papà, potrei venire subito da te?
– Certamente.
– Non disturbo?
– Assolutamente no.
– Benissimo, papà. Grazie, allora arrivederci.
Ebbi l’impressione che esitasse, come se le brevi battute del dialogo non lo avessero soddisfatto pienamente e pensasse di aggiungere qualcosa, poi riagganciò. Indugiai ancora per un momento a letto. La primitiva gioia era scomparsa o, quanto meno, era soffocata dalla preoccupazione di un incontro che presentivo difficile. Bill non mi avrebbe certo chiesto il permesso di ritornare. Il tono della sua voce lo diceva chiaramente. E poi, io non ero più sicuro di desiderarlo. A partire da quel mattino di quattro mesi fa, quando, dopo la nostra ultima e più futile discussione, lui aveva raccolto tutte le sue cose e se n’era andato via, mi ero abituato alla calma della sua assenza. Sapevo che quella era una calma sterile. Senza mio figlio, la vita, a quarantatré anni, si era svuotata, per me. Non mi era rimasto che il lavoro nella casa editrice, oltre ai complessi rapporti con Ronnie, un po’ d’affetto per mio fratello Peter e sua moglie Iris, e il ricordo di Felicia: un incubo più che un ricordo.

L.

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