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Per festeggiare Halloween, tiro fuori dagli Archivi Etruschi questo misterioso libro di cui non ho trovato alcuna informazione: è una raccolta di tre romanzi altrettanto misteriosi, di cui non so altro se non quanto riportato di seguito.

Riporto l’intero colophon:

Collana “I Gotici” • Periodico mensile Anno V – Suppl. al N. 2 – Luglio 1979 – Edifumetto S.p.A. – Via F. Redi, 22 – Milano – Direttore responsabile: G. Pederiali – Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 497 del Dicembre 1972 – Sped. in abb. post. Gruppo III/70 – Distribuzione per l’Italia: Ditta SODIP Milano, Via Zuretti, 25 – Tel. 6967 – Roma, Via Serpieri 11/5 – Tel. 874937 – Stampa: Lito 3 S.r.l. – Cologno Monzese.

La scheda di Uruk:

Pelle di Lupo (luglio 1979)
Pelle di lupo, di Cesare Solini
Amori sanguinari, di Diego Salaris
Il principe delle tenebre, di Hugues Langres (Giuseppe Pederiali)

L’incipit di “Pelle di lupo”:

Dapprima si era perso…
Colto da un’improvvisa amnesia o comunque si chiamasse la confusione in cui era piombato dopo la bastonata ricevuta in testa, molto più tardi si era accorto di trovarsi in un luogo sconosciuto e ostile, dove lo aveva portato una lunga camminata senza meta.
Aveva preso a guardarsi attorno, pungolato dalla necessità pressante di un rifugio tranquillo, dove riposarsi senza il timore che qualcuno lo cacciasse come gli era già accaduto durante quell’interminabile peregrinazione.
Doveva fermarsi; voleva farlo, sul viale alberato ai lati del quale sorgevano numerose villette, ciascuna col suo piccolo giardino, ma percepiva nell’aria una minaccia inquietante che gli suggeriva di proseguire, di allontanarsi da quel luogo dall’aspetto inospitale.
Si sentiva le gambe dure, irrigidite dal troppo camminare; e aveva soprattutto bisogno di dormire.
Così avanzò, fremendo a ogni parvenza di pericolo, per un altro centinaio di metri. Poi si arrestò a scrutare con diffidenza l’uomo che se ne stava davanti a una stazione di rifornimento, dal cui interno gli pervenne una serie di rumori indefinibili.
Un camioncino col pianale coperto da un tendone era parcheggiato un po’ più avanti. Allora proseguì, girando attorno alla stazione di servizio per evitare quell’uomo, un tale dall’aspetto teso che in verità sembrava non essersi neppure accorto di lui.
Raggiunse il camioncino, esitò un istante, poi vi salì con decisione, scavalcando con un salto la sponda posteriore e andò ad accovacciarsi dietro un paio di casse, contro la parete divisoria della cabina di guida. Aveva obbedito a un impulso improvviso, pensando che là, sotto l’ombra del tendone, avrebbe potuto starsene tranquillo. Pervaso da un’irrazionale sensazione di sicurezza, si rilassò e chiuse gli occhi.
Li riaprì di scatto, trasalendo, quando sentì la secca eco dello sparo.
Intuì di essersi ficcato in una trappola, ma non ebbe il tempo di svignarsela. Due giovanotti irruppero nella cabina del camioncino e, mentre il primo accendeva il motore con una rabbiosa accelerata, l’altro si buttava sul sedile e chiudeva la portiera con un secco scatto.
L’automezzo partì con un sobbalzo, fu in fondo al viale, svoltò a sinistra stridendo sulle gomme, poi a destra e poi ancora a sinistra, in una corsa folle.
Se ne restò immobile, appiattito sul pavimento del cassone, col cuore che pulsava e la mente confusa dall’imprevista situazione.
Guidato con perizia, il camioncino infilò una strada diritta ed asfaltata e cominciò a percorrerla a gran velocità.
I due non sospettavano di lui che, sdraiato alle loro spalle, se ne stava quieto, un po’ ansimante, ancora sorpreso di vedere gli alberi che sfrecciavano oltre l’apertura posteriore del tendone; scorgeva un lembo di cielo azzurro cupo e il pendio verde argenteo di una collina che saliva dolcemente. E nelle orecchie aveva sempre il rombo sordo del motore che girava al massimo.
Dal momento della partenza era trascorso almeno un quarto d’ora.
L’automezzo adesso sfrecciava sulla lunga strada dove il traffico era scarso e niente ostacolava la sua vertiginosa marcia. Quindi arrivò alla fine dell’interminabile rettilineo dove, dopo un’ampia curva, cominciavano le svolte della litoranea, lungo la sponda orientale dello scintillante, tranquillo lago Champlain.
Rallentarono appena, poi la velocità tornò a farsi elevata e l’uomo al volante prese a manovrare il cambio, affrontando le curve con rara abilità.
I due tipi davanti non avevano scambiato parola, mantenendo un silenzio inquieto. Ma adesso, la loro tensione si attenuò, alla vista degli Adirondack che s’innalzavano sulla sponda opposta del lago e che il sole irradiava di una luce intensa, cangiante dal verde bronzeo all’oro.
— Non dovevi sparare! disse quello al volante, senza distogliere gli occhi dalla strada.
— Colpa sua, di quell’idiota! — imprecò l’altro. — Ha tentato di colpirmi, proprio mentre stavo pescando la grana dal cassetto!
Tornarono a farsi taciturni, mentre il veloce autoveicolo si precipitava incontro a un’altra curva.

L’incipit di “Amori sanguinari”:

Il castello ferrarese dei signori d’Este sembrava un alveare. Uomini di bassa forza si affaticavano a stendere tappeti lungo gli scaloni. Camerieri sistemavano le torcere sulle pareti della sala d’onore. Altri servitori tiravano a lucido i bronzi delle porte. Era una tiepida giornata del mese di settembre del 1434. Da più di nove anni il superbo palazzo che svettava nel cuore della città non conosceva un’animazione simile; nove anni che i cittadini guardavano alle mura rossastre specchiantisi sui fossati con un sentimento di paura superstiziosa.
La tragedia del 21 maggio 1425 era nella memoria di ciascuno, tanto nota e cupa da fornire alimento alle ballate dei cantastorie. Quel giorno il palazzo aveva risuonato di angosciose invocazioni e di urla bestiali. Il giorno dell’empia tragedia lo chiamavano. Niccolò III, principe regnante, aveva punito con spietata ferocia un oltraggio al suo onore.
Niccolò, come tutti i signori del suo tempo, non teneva in gran conto i propri obblighi di fedeltà coniugale. Era sposato con una donna bella e paziente, Parisina Malatesta, ma intratteneva rapporti sentimentali con tutte le dame di cui gli veniva voglia. Lo faceva in modo aperto, giacché la virilità era allora una dote di buongoverno, tale da suscitare simpatia nei sudditi, maschi o femmine che fossero. Accanto agli appartamenti suoi e della consorte, vi erano quelli non meno sontuosi e vasti, che ospitavano gli strumenti del suo piacere: amanti in disarmo e amanti in attività di servizio, senza contare le concubine di passaggio, buone al massimo per la soddisfazione di una notte. E ancora le stanze assegnate alla nutrita figliolanza adulterina, ché anche il procreare una numerosa discendenza era un’espressione di sana politica.
Tra gli ospiti fissi del palazzo, per esempio, vi era Stella de’ Tolomei, ormai giunta in età canonica, la quale gli aveva generato una discreta prole. E, vicino al suo, il quartierino di suo figlio Ugo, primo nato dalla relazione principesca. Un ragazzo di nemmeno vent’anni, bello come il sole, ardito ed erede di molte delle virtù paterne.
Tra Ugo, bastardo di Niccolò (ma non per questo meno figlio suo) e Parisina Malatesta c’erano stati da principio i rapporti di cordiale convivenza che nascono fra i quasi-parenti. Ma Ugo era bello, molto bello. E Parisina aveva un animo portato alle romanticherie. Ben presto, insomma, fra il bastardo e la sua matrigna era sbocciato un sentimento di tenera comunione. Era stato il giovanotto a compiere il primo passo azzardato, oppure era stata Parisina, animata oltrettutto da un più che giustificato spirito di rivalsa nei confronti del marito farfallone? La storia non è in grado di documentare questo particolare, del resto di scarsa importanza.
Sta di fatto che una notte, in assenza di messer Niccolò, partito alla volta di Venezia per discutere affari di stato, Ugo era finito nel letto della matrigna che lo aveva accolto con estremo piacere. Un palazzo signorile non era un eremo. C’erano sempre orecchie tese e occhi scrutatori, pronti a prendere cognizione di qualsiasi mutamento degno di alimentare il pettegolezzo. Quella notte, o una delle notti seguenti (poiché i due amanti, una volta rotti gli argini, non avevano messo limiti allo straripare della passione) qualcuno vide e, presumibilmente, parlò.
Niccolò era stato messo al corrente al ritorno, dalla solita voce amica. Era noncurante della propria fedeltà, ma si ergeva a ferreo custode della virtù altrui, specie trattandosi di sua moglie. Non sbraitò, col rischio di passar per becco senza potersi cavare la soddisfazione della vendetta. Stette in agguato.
Una sera, adottando il più frusto degli strattagemmi, finse di partire e andò invece a nascondersi in uno spogliatoio poco distante dall’appartamento di Parisina. Ebbe la pazienza di attendere che i due amanti passassero dai baci e dalle carezze preliminari a qualcosa di più concreto. Quando finalmente fece irruzione nel nido d’amore, non potevano esservi dubbi. Parisina, approfittando del molle calore di maggio, si era liberata di tutti i suoi indumenti; e altrettanto aveva fatto il figliastro Ugo.
Per i reprobi, colti nell’atto di recare una così atroce offesa all’onore, rispettivamente paterno e coniugale del principe, vi fu fortunatamente una morte rapida, senza quei tormenti che forse Niccolò avrebbe voluto sperimentare sulle loro carni.
In quel settembre del 1434 la tragedia era però una cosa lontana, già avvolta nei fumi della leggenda. Il castello di Ferrara si preparava a ospitare un avvenimento gioioso, nientemeno che la firma del contratto di matrimonio fra Ginevra, altra bastarda del principe regolarmente legittimata, e il giovanissimo signore di Rimini, un diciassettenne di meravigliose speranze che rispondeva al nome altisonante di Sigismondo Pandolfo Malatesta. Era parente alla lontana della defunta Parisina, ma aveva dalla sua referenze tali da far dimenticare quello sgradevole neo.

L’incipit de “Il principe delle tenebre”:

La giovane Charlotte cadde in ginocchio davanti alla regina madre. Era bianca di paura. La grande Caterina de’ Medici incuteva timore ai ministri e ai potenti del regno di Francia, figurarsi a una piccola alverniate priva di protezioni.
— Tu sai perché ti ho fatto chiamare? — chiese la regina madre.
— Forse ho mancato in qualcosa e vostra maestà ha il dovere di punirmi — cercò di prendere tempo la ragazza.
— Attenta, Charlotte — la minacciò Caterina, levando l’indice.
— Vostra maestà, se erede, mi interroghi… — tremò la giovane.
La regina madre sorrise.
— Sei al mio servizio da più di cinque anni — disse con voce raddolcita. — Mi hai sempre obbedita e onorata: so che anche stavolta non mancherai di farlo…
Charlotte si arrese. Già prima di essere convocata alla presenza della sovrana sapeva che avrebbe parlato. Colpa sua che non aveva tenuto la lingua a posto dopo la scoperta. Ma era troppo tardi per rammaricarsene.
— Si tratta di vostra figlia, la principessa Margherita — disse tutto d’un fiato.
— Raccontami…
La scoperta l’aveva fatta la notte prima. Come sempre, prima di ritirarsi negli appartamenti della servitù, Charlotte aveva preso il lume e aveva fatto il giro delle camere da letto. Era addetta in particolare alla persona della principessa, da lei conosciuta fin da quando era bambina. Margherita la trattava in modo strano, a volte con eccessiva dolcezza, quasi cercasse in lei confidenza e affetto, e a volte bruscamente, addirittura con parole villane. Ma lei non se n’era mai stupita: la principessa era sui tredici anni, in quell’età difficile in cui il carattere ancora non s’è formato e si avvertono i primi segni dell’incipiente giovinezza. Era stata una bella bambina la principessa; e tutto lasciava pensare che sarebbe diventata anche una bella ragazza. In qualità di cameriera, Charlotte era al corrente di tanti suoi piccoli segreti. Del fatto, per esempio, che fosse lì lì per diventare donna, come denunciava il suo petto arrotondato e la leggera peluria che cominciava a fiorire nel suo grembo.
Anche la notte prima Charlotte aveva appoggiato l’orecchio alla porta della camera da letto di Margherita per accertarsi che fosse addormentata. La principessa aveva solitamente un sonno pesante e non c’era verso che si svegliasse prima che il sole fosse alto. Stranamente aveva udito un gemito.
— Mi sono spaventata, mia signora… — si giustificò Charlotte.
— Capisco, ma vai avanti.
La cameriera, ritenendo che la fanciulla affidata alle sue cure fosse indisposta, aveva girato la maniglia, schiudendo appena la porta. Lo spettacolo di cui era stata testimone l’aveva lasciata dapprima perplessa e, quindi, in preda a una comprensibile agitazione.
Intanto, contrariamente al solito, Margherita aveva tenuto acceso il lume a olio che usava per prepararsi. E inoltre…
— Ti ho invitato a essere sincera con me — le disse Caterina, per indurla a continuare. Le chiacchiere sull’episodio erano già arrivate alle sue auguste orecchie, ma voleva essere messa al corrente da chi aveva visto coi propri occhi.
Inoltre, riprese Charlotte, la principessa non dormiva. Si era denudata completamente e stava nel letto a gambe larghe, in una posa tale, come se…
— Spiegati meglio.
— Vostra maestà voglia perdonarmi — si smarrì la cameriera, incerta se proseguire nel riferire fedelmente ciò che aveva osservato. — È impossibile che io mi sia spaventata e…
— O parli, o avrai di che pentirtene — Caterina alzò il tono della voce. Le sue minacce non erano mai a vuoto. Charlotte parlò.
La principessa era distesa e si agitava scompostamente, mormorando frasi che una fanciulla come lei non avrebbe dovuto neanche aver mai sentito.
— Quali frasi? — si spazientì la regina madre.
— Ecco, mia signora… proprio come se nel letto non fosse sola: non so se sono riuscita a spiegarmi…
— Ti sei spiegata a sufficienza.
Charlotte disse ancora che non aveva osato entrare e si era limitata a starsene sulla soglia, tossicchiando per richiamare l’attenzione della fanciulla. Ma la principessa non le aveva badato. Forse si trattava soltanto di un sogno, spiegazione non improbabile se si teneva conto della sua età…
La regina madre non commentò l’ultima frase della cameriera. Le fece soltanto un segno per significarle che il colloquio era terminato.
— Bada a non farne più parola — l’avvertì con tono severo. Ho saputo che ti sei confidata con qualcuno e questo proprio non mi piace.
— Non aprirò più bocca, glielo giuro — promise Charlotte. S’inchinò profondamente e uscì rinculando, lieta che la chiamata si fosse risolta senza gran danno. Mai più si sarebbe azzardata a spettegolare su ciò che accadeva a palazzo.

L.

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