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Titolo d’annata de “Il Giallo Mondadori“, nell’epoca di Laura Grimaldi.

L’illustrazione di copertina è firmata da Carlo Jacono.

La scheda di Uruk:

1795. La strada di mattoni gialli [Toby Peters 2] (Murder on the Yellow Brick Road, 1977) di Stuart Kaminsky [26 giugno 1983] Traduzione di Luciana Crepax
Inoltre contiene il racconto:
Il ritratto (I Can’t Get Them Right, da “EQMM“, giugno 1978) di Judith K. Maffei

La trama:

Sulla strada di mattoni gialli del set del «Mago di Qz» c’è uno Sgranocchietto disteso con gli occhi spalancati rivolti verso i riflettori. Indossa un cappottino giallo con le maniche a sbuffo e un berretto giallo e blu a forma di fez con in cima una penna. Sembrerebbe un soldatino di stagno se non fosse per quel coltello che gli sporge dal petto. Questa la scena del delitto come appare a Toby Peters, investigatore privato, chiamato alla Metro Goldwyn Mayer dalla giovane Judy Garland. Uccidendo lo Sgranocchietto, l’assassino aveva di sicuro in mente due cose: spaventare (o qualcosa di più?) l’attrice e screditare gli Studios. Tocca a Toby Peters quindi tenere lontani la polizia e i giornali dalla MGM, e scoprire il colpevole nel più breve tempo possibile. Potranno aiutarlo nel difficile compito due illustri testimoni: Clark Gable e Victor Fleming. Per fortuna di Toby anche lo scrittore Raymond Chandler gli verrà in soccorso, nella soluzione di questo intricato caso, in cui il simpatico e malandato detective rischia la pelle non solo per l’abile mano assassina ma anche per il micidiale pugno del «caro» fratello.

L’incipit:

Avevano ucciso uno Sgranocchietto. Era disteso sulla strada di mattoni gialli con gli occhi spalancati rivolti verso i riflettori, i capelli e la barba color biondo paglia hollywoodiano e una strana divisa militare: un cappottino giallo con le maniche a sbuffo e un berretto giallo e blu a forma di fez, con in cima una penna. Poteva sembrare un bel soldatino di stagno se non fosse stato per quel coltello che gli sporgeva dal petto. Era un coltello da cucina; si vedeva solo il manico di legno marrone.
Feci un passo avanti e vidi che, dalla parte opposta a quella in cui mi trovavo, il sangue aveva lasciato una traccia scura tra i mattoni gialli. Era la strada che doveva portare dal Mago di Oz, ma finiva contro un muro di pietra grigia.
Non sapevo neanch’io perché ero lì. Era il 1° novembre del 1940, venerdì, me ne ricordo perché la sera prima alle undici avevo avvertito una leggera scossa di terremoto. In California c’è chi segna coi terremoti le tappe della propria esistenza, io mi limito a ricordarli e a chiedermi per quante volte ancora sarò così fortunato da cavarmela.
In quel momento però mi sentivo non solo poco fortunato ma anche scemo. Un’ora prima, mentre stavo parlando con qualcuno alla Warner Brothers, mi aveva telefonato Judy Garland e aveva detto che, per carità, corressi subito alla Metro Goldwyn Mayer. Non aveva aggiunto altro e io mi ero affrettato a obbedire anche se ho una Buick del ’34 che tutto fa tranne che andare in fretta.
Al cancello della Metro, a Culver City, in Washington Street, ero stato fermato da due guardie di sicurezza in divisa. Non mi avevano riconosciuto ed era più che naturale perché avevo lavorato solo per un breve periodo alla Metro, prima ancora di entrare nella polizia di Glendale. Avevo poi passato cinque anni alla Warner Brothers, fino a quando non avevo rotto il braccio a un cowboy. Un incidente inevitabile. Era sempre ubriaco e io passavo il tempo a tenerlo in piedi appoggiandolo qua e là quando pesava troppo, finché un giorno mi aveva tirato una sventola a peso morto. Avevano dovuto interrompere le riprese del film, perché c’erano volute due settimane per aggiustargli le ossa. Per buttar fuori me era bastato meno.

L.

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